sabato 24 gennaio 2015

La new economy (I° parte): finanza e banche centrali, l'economia cambia


L'attuale modello economico postfordista (new economy) è basato sul connubio tra nuove tecnologie e finanza, tra settori tecnologici e imprenditoriali emergenti e mercati borsistici. 
Le due facce della new economy, quella tecnologica e quella finanziaria, hanno un decorso storico parallelo che si interseca compiutamente a metà degli anni ‘90 dando avvio alla famosa “euforia irrazionale” dei mercati borsistici e alla successiva esplosione della bolla speculativa che ha inizio nel marzo del 2000 ed è tuttora in corso. 
Si tratta da più punti di vista di storie parallele. 
La diffusione progressiva delle tecnologie informatiche, fino alla nascita della web-economy, va di pari passo con i nuovi modelli di organizzazione aziendale che nel corso degli anni Ottanta polverizzano la vecchia fabbrica fordista con le tecniche della produzione just-in-time, della flessibilizzazione della forzalavoro, dell’esternalizzazione di segmenti di produzione (outsourcing). 
Su questo versante i cambiamenti profondi dei modi di lavorare sono sia il frutto di un attacco frontale da parte del ceto imprenditoriale alla classe operaia fordista e alla sua forza politico-sindacale, sia la conseguenza di una rivoluzione sociale e culturale che vede le tecnologie informatiche e la loro organizzazione reticolare come una vera e propria occasione per sperimentare forme di democrazia assoluta. 
Questo passaggio dalla società fordista all’economia postfordista va infatti visto nella sua ambivalenza e ambiguità, perché da una parte l’uscita dal fordismo comporta l’inizio della precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro, ma nel medesimo tempo è vissuto come possibilità reale di superamento della società industriale novecentesca in cui lo Stato sociale viene visto più come luogo di auto riproduzione del sistema dei partiti che come dispositivo di redistribuzione della ricchezza, in cui le grandi imprese sono considerate potenze esterne alla società e alle forme di cooperazione sociale sperimentate negli anni delle lotte operaie e studentesche. 
Il successo delle nuove tecnologie non sarebbe spiegabile senza questa domanda di democrazia assoluta emergente dalle lotte degli anni ‘70, e lo stesso successo della critica neoliberista allo Stato sociale non si spiegherebbe senza tener conto della crisi della democrazia rappresentativa e della domanda di partecipazione diretta alla ripartizione della ricchezza sociale. 

Sul versante monetario, la new economy è il risultato della svolta nella politica delle banche centrali
La decisione della Federal Reserve (ottobre del 1979) di aumentare i tassi di interesse dal 9% al 20% per attaccare l’inflazione interna agli USA (espressione monetaria dell’esplosione dei salari e degli effetti dello shock petrolifero del 1974) e la svalutazione internazionale del dollaro (riflesso della perdita del controllo US sull’offerta globale di denaro e sui flussi di credito internazionale), rappresenta il passaggio da un’economia dominata dai debitori all’economia dominata dai creditori/investitori. 
A proposito delle dinamiche che portarono alla svolta monetarista del ‘79 Giovanni Arrighi scrive: «Le politiche monetarie statunitensi degli anni Settanta stavano cercando di indurre il capitale a continuare a sostenere l’espansione materiale dell’economia-mondo capitalistica imperniata sugli Stati Uniti, sebbene tale espansione fosse divenuta la causa principale dell’aumento dei costi, dei rischi e dell’incertezza per il capitale delle grandi imprese in generale e per quello statunitense in particolare. 
Com’era prevedibile solo una parte della liquidità creata dalle autorità monetarie statunitensi venne utilizzata per la creazione di nuovi impianti commerciali e produttivi: la maggior parte fu trasformata in petrodollari ed eurodollari che, dopo essersi riprodotti più volte attraverso i meccanismi interbancari privati di creazione di moneta, riemersero prontamente nell’economia mondiale come rivali dei dollari emessi dal governo americano». 
La svolta monetarista del 1979, alla quale seguiranno una dopo l’altra le misure di liberalizzazione dei movimenti dei capitali, la privatizzazione delle risorse pubbliche e la finanziarizzazione su scala mondiale, sigla la memorabile alleanza tra il potere dello Stato e quello del capitale
Da quel momento in poi le politiche monetarie espansive degli Stati Uniti, che avevano caratterizzato l’intera epoca della guerra fredda e la crescita economica fordista, lasciano il posto a politiche restrittive volte a estirpare l’inflazione. 
L’aumento dei tassi di interesse avrà conseguenze durature sui debiti del settore pubblico e del settore privato, costringendo il capitale a dipendere sempre più dai mercati borsistici per il proprio finanziamento e forzando gli Stati nazionali a comprimere la spesa sociale con il contenimento del debito pubblico. 
Non a caso è del 1981 la creazione negli Stati Uniti del primo schema pensionistico a contribuzione definita (il 401(k)). 
A differenza dei precedenti schemi pensionistici a prestazione definita in cui le rendite vengono fissate contrattualmente come percentuale degli ultimi salari percepiti, nello schema pensionistico a contribuzione definita la rendita dipende dai rendimenti dei titoli in cui i risparmi dei lavoratori sono stati investiti. 
«Tradizionalmente – scrive Robert Shiller – i sindacati hanno considerato i piani a prestazione definita le migliori forme di garanzia di benessere una volta in pensione, ma la riduzione degli iscritti ha comportato un minor sostegno a questo tipo di schemi». 
La perdita d’importanza del settore manifatturiero, a lungo roccaforte dei sindacati e dei piani pensionistici su base retributiva, permette la progressiva diffusione di schemi pensionistici integrativi basati sul principio della capitalizzazione dei risparmi privati. 
Nasce così la società del rischio in cui il destino dei lavoratori viene legato saldamente a quello del capitale. 
Era dagli anni Cinquanta che la Borsa aveva ripetutamente tentato, ma con scarso successo, di solleticare l’interesse del grande pubblico per il mercato azionario, ma nessuna informazione diffusa dalla Borsa per avvicinare il pubblico al mondo borsistico avrebbe mai potuto competere con gli effetti dell’apprendimento pratico dovuto alla creazione dei piani a 
contribuzione definita (la cosiddetta pensione integrativa o II pilastro). 
Benché l’obiettivo dei fondi pensione sia quello di incoraggiare la visione di lungo termine degli investitori per prepararli al pensionamento, gli schemi pensionistici a contribuzione definita sono concepiti in modo da favorire i titoli azionari a scapito dei titoli obbligazionari (a rendimento fisso) o dei beni immobili. 
Questo è reso possibile dal fatto che le persone tendono a distribuire in modo sbilanciato i propri risparmi, senza prendere in considerazione il contenuto delle opzioni prescelte. 
In questo modo, il valore di interesse e di curiosità per le azioni ha la meglio su qualsiasi razionalità individuale di decisione d’investimento, su qualsiasi attenzione a ciò che concretamente sta dietro i titoli quotati in Borsa. 
Nel corso degli anni ‘80, negli Stati uniti una delle ragioni del successo dei fondi comuni d’in-vestimento – l’altro strumento di raccolta massiccia del risparmio collettivo che ha contribuito all’esplosione della new economy – si deve al loro uso all’interno dei piani pensionistici. 
Familiarizzandosi con l’investimento in azioni per scopi pensionistici si finisce con l’investire nei fondi comuni anche i risparmi esterni ai piani pensionistici. 
Altrettanto importante per la crescita dei fondi comuni è stata la pubblicità che ne è stata fatta attraverso show televisivi,  riviste, quotidiani. 
Tra i primi anni Ottanta e la fine degli anni Novanta i fondi aperti aumentano parallelamente alla riduzione dei tassi di interesse bancari e del rendimento dei Buoni del tesoro (i BOT) e al bombardamento pubblicitario dei mass media sugli investitori più inesperti e sprovveduti.
Con i fondi pensione e i fondi comuni si dà avvio al drenaggio del risparmio collettivo, prima americano e poi mondiale, e al sempre più diffuso investimento diretto (anche via Internet) di milioni di piccoli risparmiatori in preda alla febbre del guadagno facile
Si chiama appunto finanziarizzazione il dirottamento diretto e/o indiretto del risparmio delle economie domestiche sui titoli azionari. 
Sull'onda dello spostamento del finanziamento dell’economia dal settore bancario a quello borsistico, la finanziarizzazione contribuisce in modo decisivo al decollo della new economy della seconda metà degli anni ‘90. 
Da una parte, le ristrutturazioni dei modi di produrre e l’investimento in nuove tecnologie informatiche riducono il rischio di inflazione mentre aumentano la produttività del lavoro, dall’altra parte la disinflazione, ossia la riduzione graduale dei tassi di inflazione, trascina verso il basso i tassi di interesse, riducendo in tal modo la remunerazione bancaria dei risparmi. 
Per attirare gli investitori sui mercati borsistici le imprese offrono rendimenti sempre più elevati con operazioni di fusione e acquisizione di altre imprese, acquistando le loro stesse azioni o, come si è visto con gli scandali della Enron, della WorldCom e di molte altre grandi imprese, truccando la contabilità per far apparire i profitti più elevati, per poi intascare somme enormi con le famose stock options, le opzioni di prelievo sulle azioni della propria impresa con le quali manager e dipendenti ricevono la parte variabile dello stipendio.

Tratto dall'articolo "Il denaro che parla" di Christian Marazzi 

(da «Inoltre», a. V, n. 6, inverno 2002, pp. 9-19)

Nessun commento:

Posta un commento